Al CorSera: “Ad un certo punto ti accorgi che non vuoi più incontrare quella persona, perché non la stimi e non la conosci più”

Il Corriere della Sera intervista Gabriele Muccino. Recentemente ha vinto il Nastro d’argento, ex aequo con «Le fate ignoranti», con il suo «A casa tutti bene», di cui sta girando la seconda stagione. Dice che da ragazzo era un balbuziente.
“Ho balbettato – molto più di oggi – e questo mi distraeva: che fosse la persona che volevo affascinare o una che volevo solo intrattenere”.
Il film che lo ha consacrato al grande pubblico è stato “L’ultimo bacio”, con protagonista Stefano Accorsi.
“Quel personaggio ero io, completamente. Dopo il mio primo film Eccolo e, soprattutto, dopo Come you never one ever, sono stato io a ritrovarmi in una storia che richiedeva responsabilità, improvvisamente circondato da tante Martina Stella. Ma quello che non sapevo era che molte altre persone erano simili a me. La mia unicità non era così straordinaria: ero solo più propenso a raccontare i miei sentimenti e le mie zone d’ombra in modo essenziale. Quel film scatenò un’esplosione emotiva nello spettatore che litigava spesso con il compagno con cui andava al cinema, perché si scopriva che uno la vedeva come Accorsi e l’altro come Mezzogiorno… c’è gente che, dopo averlo visto, si è rotto e ancora oggi mi ringraziano per la loro fuga. Per quanto mi riguarda, The Last Kiss è stato una specie di tsunami».
Uno tsunami che ha trasformato un ex fidanzato introverso in una celebrità.
«Ero cresciuto in solitudine e stavo bene da solo, ma quando volevo provare a misurarmi con il resto della società sentivo di avere dei divari molto grandi, che non sapevo come colmare. A 14 anni non sapevo nemmeno chi fossero i Beatles: questo per dire quanto fossi stato alienato dalla sola realtà. Il cinema mi ha dato la possibilità di esistere, o di portare ciò che sono al godimento degli altri. Il punto più doloroso della mia adolescenza è stato non riuscire a comunicarmi: mi spaventava, mi faceva sentire mediocre e profondamente irrisolta. Ho cercato di risolvermi e raccontarmi attraverso il cinema».
È sempre stato così?
“E’ un meccanismo che si è ripetuto film dopo film. E ho potuto raccontare molto di me, anche i traumi, i dolori, i grandi disincanti, le delusioni. Ho usato il cinema come strumento per dissolvere quella che sarebbe stata un’esistenza implosa. Ho usato la drammaturgia per dare ordine al caos della vita».
Per molti anni ha vissuto e lavorato in America. Parla degli aspetti negativi dell’esperienza.
“Ho sofferto molto per l’assenza del banchetto, da quel momento in cui conosci davvero le persone e ti lasci andare. Lì, la vita che ho condotto per 12 anni è stata guidata dagli affari: hai conosciuto solo chi poteva darti qualcosa, chi ti vedeva solo se potevi essere interessante dal punto di vista lavorativo. A parte questo, non ho mai conosciuto l’amicizia senza alcun interesse per l’America. Così, quando mi sono ritrovato a casa di Giovanni Veronesi a Roma, in una serata super allegra, in cui eravamo tutti con le lacrime agli occhi dalle risate, ho capito – ridendo tanto – che non lo facevo da anni. In quel momento ho capito che se era vero, come era vero, che in America avevo smesso di ridere, allora non era più il posto dove potevo essere e me ne sono andato. La mia anima mi uccideva, la voglia di vivere uccideva anche me».
Ha una relazione molto travagliata con il fratello Silvio. Ne parla.
“Con lui ho vissuto un lutto, un lutto di persona viva, che non vedevo dal 2007. È stata un’esperienza per me ripugnante dal punto di vista psicologico: mi ha reso senza carne. Rimane una delle cose più incomprensibili, ingiustificabili e forse anche imperdonabili. Ad un certo punto, quando questo lutto ha funzionato, quando ho smesso di soffrire, erano passati 15 anni. Lì ti accorgi che quella persona che non vuoi più incontrare, non hai più niente da raccontare perché in fondo non la stimi, non la ammiri e non la conosci più. Se mancano questi tre elementi, qual è il resto? Modulo?”.
Non c’è possibilità di chiarimento?
«Quando tuo fratello scompare senza nemmeno dirti perché per tutta la vita, il corpo soffre, tu soffri psicologicamente, ti svegli nel cuore della notte come se fossi senza fiato, perché vuoi tuo fratello. Era un pezzo di me. Ha preso una parte enorme della mia vita da me e ora quella parte non c’è più. La nostra difesa naturale nell’elaborazione della sofferenza fa sì che sulla cicatrice si accumuli uno spessore che rende quella cicatrice insensibile. È lì, lo vedi ma la carne è così spessa che la ricopre che siamo diventati insensibili, nonostante ciò che vorremmo. Ma è fisiologico difendersi da un dolore così penetrante».